Alessandra Agosti intervista Giuseppe Chico
A.A: Il titolo dello spettacolo “I am 1984” evidenzia quello che è uno dei suoi fattori di base, ossia il fatto di collegare singolare e plurale, individuale e collettivo. Da dove è nata questa idea? Dall’esperienza forte della guerra vissuta dalla protagonista?
G.C: La guerra non c’entra. In ogni caso nel 1984 non c’era nessuna guerra, se parliamo dei Balcani. Non é neanche uno sguardo retrospettivo sulle cicatrici di Barbara Matijevic durante la vera guerra tra il 1991 e 1995.
E’ più un’operazione di giustapposizioni di due grandezze diverse. Non c’é accento sulla riappropriazione della Storia, che avrebbe luogo in ogni caso, da parte del singolo individuo. Dovremmo metterci d’accordo sulla fisionomia di questa Storia, cioé sulla maniera di rappresentarla. E’ proprio perché sfugge che cerchiamo di inventarci un volto. Siamo alla ricerca di un’immagine definitiva e onnicomprensiva? Non credo. Non siamo dei ritrattisti. Siamo più come due archeologi che scavano alla ricerca di tracce. Siamo più appassionati per le impronte lasciate dalla Storia, e lo facciamo adoperando la prima persona al singolare.
A.A: La contaminazione tra forme espressive non è una novità, ma certamente l’uso del segno grafico unito a narrazione e coreografia si distacca dal solito: da dove è nata questa scelta?
G.C: Il teatro é di natura ibrido. Ricorrere al segno grafico non é stata per noi una volontà di straripamento. Il teatro si presta più di altre arti all’eterogeneità delle fonti. Per esempio in All good spies are my age l’artista Juan Dominguez utilizza solamente dei fogli con su alcune scritte proiettate su un muro. Come spettatori siamo chiamati all’atto della lettura, ma la tensione che si crea é di una situazione propriamente teatrale. Certo noi mettiamo in scena il gesto del segno grafico. I nostri sono disegni, non parole. Sono immagini, con quello stile che si puo’ attribuire a un bambino, ma anche pericolose perché appunto stilizzate. Oggi l’immagine va sempre più verso una stilizzazione della realtà. Nel nostro spettacolo non remiamo contro questa tendenza, ma proviamo a cambiarle il senso con la parola. Le nostre immagini sono di volta in volta loghi, allegorie, icone, indici, schemi, sintomi.
A.A: E che significato ha la “mappa mentale” proposta: che tutto è spiegabile? o l’esatto contrario? o mettere le cose nero su bianco è appunto un estremo tentativo di dar loro una spiegazione?
G.C: La mappa é stata il punto di partenza per far nascere il discorso. Un tentativo di organizzare spazialmente il pensiero. Ma poi da mappa si é trasformata nel territorio stesso. Se vuoi é l’equazione di un gioco da tavola, nessuno mette più in discussione l’assetto iniziale. E’ grazie a questo assunto che il territorio viene poi investito ma, da ciascuno, in maniera diversa. O allora cambi gioco o ne inventi un’altro. Il territorio resta in ogni caso una finzione. Possiamo spiegare una finzione senza non ricorrerne a un’altra?
A.A: Voi lavorate molto anche all’estero e seguite un percorso espressivo alternativo, d’avanguardia. A che punto è l’Italia in questo ambito?
G.C: Sul concetto di avanguardia resto un po’ diffidente. E’ un termine preso in prestito alla terminologia militare per designare la parte anteriore di un esercito, non siamo di natura bellicosa. Guardare avanti é una cosa naturale! Anche la parola “Drago” significa guardare avanti. Preferisco più la terminologia delle fiabe. Per quanto riguarda l’Italia non posso dire molto. L’ho lasciata 10 anni fa. Sono pero’ sorpreso in positivo dalla curiosità che c’è e dal lavoro appassionato di piccole realtà che cercano con molti sforzi di offrire una programmazione diversa e ampia. Certo resta un problema quello dell’instituzione culturale che resta molto indietro. All’estero le compagnie italiane che girano sono poche e sempre le stesse, perché? Forse dovrebbero prendere esempio dai “draghi”, senza ricorso al fuoco, ben inteso.